Ho vissuto l’anniversario dell’11 settembre 2001 con serena tristezza.
Ho rielaborato il dolore, rivissuto l’incredulità e lo stupore per l’accaduto, l’angoscia per le famiglie così tragicamente colpite. Ed ho rammentato come l’evento m’ha coinvolto e spaventato direttamente.
Ho scritto queste note solo ora. Prima non ero pronto.
Quell’undici settembre il mio capo era a New York da qualche giorno per incontri nella filiale di una nota Banca milanese (la nostra) e altrove nella City, forse anche al World Trade Center, alle torri gemelle, insomma.
Quel giorno doveva ripartire per Milano. Non conoscevo l’ora della partenza.
Nella prima parte della giornata io, a Milano, avevo avuto riunioni nel nostro Centro Servizi finiti i quali, dopo pranzo, preso il caffè in un bar, ero salito in macchina, girato la chiave d’accensione e acceso la radio. Il caos.
Voci concitate parlavano di giornata nera per l’aviazione civile. Due aerei, a poca distanza uno dall’altro s’erano schiantati sulle “torri gemelle di New York”, un altro sul Pentagono, un altro ancora in un altro posto che non afferrai e, forse, non era finita. Il giornalista alla radio parlava di altri aerei caduti. Uno, forse due. Ed il tutto stava per aggravarsi. Le torri, in fumo, sembrava stessero per cedere e coinvolgere nella caduta altri immobili ad esse prossimi. Qualcuno s’era gettato dai piani alti. Le televisioni avevano ripreso le cadute e gli schianti.
Nella mia mente vedevo le persone cadere, le torri in fiamme. Non facevo fatica ad immaginare, le conoscevo le torri. Le avevo visitate l’anno precedente, durante un viaggio di lavoro. Ero salito sino in cima, goduto il panorama, scattato fotografie, fatto acquisti. Non potevano cadere.
E il mio capo era a New York. Era il nostro Direttore Finanziario, un capo al quale mi sentivo particolarmente legato, ben oltre la stima professionale. Un uomo di valore, schietto per quanto il ruolo glielo consentisse, capace di provare a rispettare l’impegno preso, uso anche a dire di no a rischio di farsi dei nemici, Un uomo di parola. Un uomo da ammirare. Gli ero e gli sono rimasto affezionato anche se le occasioni per vedersi sono, ormai, quasi nulle.
Presi il cellulare e chiamai mia moglie per essere certo che non si trattasse di una bufala, tipo l’arrivo dei marziani, inventata da Orson Welles per la BBC qualche decennio prima. Purtroppo era tutto vero, confermò mia moglie con una voce strana. Stava seguendo in diretta tv, di minuto in minuto, l’evolversi degli avvenimenti.
Provai allora a chiamare il mio capo oltre Atlantico: nulla da fare; linee bloccate; il mio ufficio, per sapere se avevano notizie; la nostra Sala Cambi: nulla, niente di niente. Nessuna notizia.
Gli Stati Uniti avevano chiuso tutte le frontiere: aeree, ferroviarie, portuali. Non c’erano pertugi.
Le continue dirette radio-tv davano per certo trattarsi di un attentato di matrice islamica; qualche notizia filtrava con riguardo allo schianto sul Pentagono. Solo un altro aereo era stato coinvolto. Su di esso i passeggeri s’erano ribellati ai dirottatori. L’aereo era caduto prima che arrivasse a Washington e colpire la Casa Bianca. L’America aveva nuovi eroi da ricordare per i quali piangere e pregare.
Del mio capo nessuna notizia né in quella giornata né in quella successiva. In me cresceva l’angoscia.
Solo il terzo giorno (13 settembre) via swift (una sorta di telex utilizzato nelle Sale cambi) si seppe se e come fosse restato coinvolto.
Quella mattina stava andando all’aeroporto Kennedy per rientrare in Italia. Il taxista ad un certo punto si volse e gli disse che dovevano tornare in città. L’aeroporto era stato chiuso perché era accaduto qualche cosa di particolarmente grave.
Preso atto dei fatti cercò un treno per il Canada da dove rientrare in l’Italia. Nulla. Riuscì a volare indietro solo il 13 sfruttando, credo, qualche conoscenza che ne favorì la partenza accelerata. Molti, infatti, dovettero attendere più e più giorni.
Se ripenso ad allora non posso dimenticare il mio senso di smarrimento, la mia paura, il mio sgomento, la mia
speranza. Come avrebbe retto la Sua famiglia qualora fosse accaduta una tragedia? Come stavano vivendo, i suoi cari, la logica alternanza di paura e speranza? Potevo, io, fare qualcosa per alleviare quelle pene?
Una sensazione simile l’avevo provata solo un’altra volta. Un collega-amico juventino era andato in Belgio ed era allo stadio Heysel la sera che vi furono tafferugli, paura e morti. Fortunatamente lui non ne fu coinvolto.
Spero di non vivere una terza esperienza di questo tipo. E’ molto dolorosa e lascia tracce indelebili.
Avrei dovuto recarmi a New York, per lavoro, un paio di mesi dopo. Lo feci, invece, nel 2003 col cuore pesante. La città era ancora in lutto. Ground zero una infernale voragine.
In molte strade della Grande Mela biglietti, disegni infantili, piastrelle riproducenti biglietti d’originali ormai scomparsi, erano attaccati, legati, incollati a reti metalliche, ai muri, a pannelli come quelli per le nostre affissioni elettorali. “Johnny ti amo”, dicevano, “Papà dove sei”, “Charly, non lasciarci”. Fra i tanti che lessi ne ricordo uno, con grafia femminile, che mi emozionò particolarmente. Era attaccato, fra altri, esattamente di fronte ad un piccolo e famoso locale di musica jazz, il Village Vanguard. Una sorella, al fratello, diceva più o meno così: “… prima che stamane tu uscissi abbiamo bisticciato. Avevi ragione, ma non ho voluto dartela. Mi dispiace tanto. Vorrei potertelo dire ora. Scusami. Ti voglio bene. Perdonami.”
Quel biglietto non posso ne voglio dimenticarlo. Vorrei poter trovare quella sorella, stringerla al mio cuore e assicurarla che il fratello, prima di morire, ha pensato a lei con amore e l’ha perdonata.
Ecco, questo è stato il mio 11 settembre. E il 12 e il 13 e due anni dopo.
Sono tornato a New York con mia moglie ed una coppia di amici nell’aprile 2008. Non conoscevano la città. Ho fatto un po’ da cicerone e li ho portati anche a Ground zero dove fervevano i lavori, alla Centrale dei pompieri, eroi indimenticabili, al museo della Polizia altro Corpo che ha pagato, con proprie vittime, un alto prezzo.
A Dio piacendo tornerò là nel 2017 o 2018 a vedere, se compiuta, la Torre della libertà, il nuovo simbolo per non dimenticare, ora in costruzione.
In tanta afflizione un elemento positivo, perché questo dobbiamo cercare anche nelle tragedie. Mi sono reso conto che ero, che sono vivo, capace di soffrire, di emozionarmi, estraneo alla schiera degli indifferenti, consapevole che la vita, l’amicizia, la stima e l’affetto erano e sono, valori che arricchiscono anche nel dolore, nella sofferenza. Valori che ancora conservo. E con i tempi che corrono, scusatemi se è poco.
banzai43
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